Riceviamo con richiesta di pubblicazione scritta:

Mi piacerebbe condividere con voi la mia esperienza alla SG, se volete, potete pubblicarla, ma vi prego di non pubblicare il mio nome né il mio indirizzo mail. Grazie. La pratica me l'ha fatta conoscere una persona a me molto cara, a cui nonostante tutto voglio ancora molto bene. La prima riunione a cui ho partecipato non mi ha entusiasmato per niente. Mi interessava molto la filosofia di vita, però, allora mi sono comprata alcuni libri e ho iniziato a studiare questa religione (e la chiamo così perché ne ha tutte le caratteristiche, effettivamente). Nonostante in passato non abbia mai praticato con convinzione nemmeno la religione di famiglia, questa invece mi prendeva proprio: iniziai allora ha recitare. Lo feci da sola, la prima volta, e fu terribile. Stavo male, avevo attacchi di panico continui. Chiamai allora la persona che mi aveva parlato della pratica, e gli chiesi come mai mi era capitato. Lei mi stette molto vicina, e mi consigliò di recitare più lentamente e per meno tempo. Lo feci, e infatti stetti subito meglio. Così andò avanti per un mese. Poi conobbi il gruppo della mia zona, e lì la cara persona che mi fece shaku-buku non c'era. Conobbi altre persone, giovani, donne, uomini. Era un bell'ambiente. Quindi, perché non ricevere il fatidico gohonzon (volutamente con la g minuscola), tanto decantato alle riunioni? Lo ricevetti. Non provai assolutamente nulla di speciale. Quel giorno venne raccontata un'esperienza di fede molto forte, oggettivamente parlando, mi commossi come avrebbe fatto chiunque, e tutti lo interpretarono come un segno della mia "apertura alla vita". Il fatto di far parte di un'associazione non mi era passato minimamente per la testa, voglio dire che non ne avevo valutato il peso. In effetti per me non c'era, ma non perché non venisse esercitata pressione, ma perché Io avevo ben altro di cui occuparmi. La domanda che vi potreste fare è: ma se stavi bene, come mai hai deciso di smettere? I dubbi mi sono iniziati a venire quando una persona che stimo molto ha pronunciato questa frase che voglio condividere con voi: "la crescita esiste solo dove c'è conflitto". Nella soka non c'è conflitto. E se c'è, si traduce irrimediabilmente in una banalissima esperienza "di fede" nello stile "e tutti vissero felici e contenti", e faccio un esempio per farvi capire: Io ho un problema col mio capo. Ci litigo. In una vita senza soka, il mio problema mi porterebbe a riflettere su alcune manchevolezze mie, ma anche del mio capo, che magari mi farebbero cambiare lavoro. In una vita con la soka, mi viene consigliato di pregare per lui, tre, quattro ore al giorno, magari, ed inevitabilmente tutto deve tornare alla normalità. Se non succede così, la responsabilità è mia. Il conflitto a mio avviso deve essere vissuto per crescere in positivo, per non stare fermi, per realizzarsi. Non è così nella soka, infatti quando Io ho espresso i miei dubbi nei confronti di Ikeda mi è stato detto che dovevo recitare per lui. Che la responsabilità era mia se vivevo il suo rapporto con lui così. Allora iniziai a citare alcuni fatti del suo passato arcinoti sulla rete (e solo lì), e per tutta risposta mi venne detto che Io dovevo recitare ancor di più per lui. Una volta una persona che stava per prendere il gohonzon ebbe dei dubbi su Ikeda dopo aver visitato alcuni siti. Lo disse a riunione, e gli altri praticanti affrontarono apertamente il problema screditando in toto i siti che lei aveva visitato. Anche lei contribuì a farmi prendere la mia decisione di lasciare la soka, anche se questa persona vi entrò. Non so se lo sapete, ma la maggioranza dei praticanti sono donne. Per questo la soka è un passatempo piacevole per provoloni niente male. Nel mio gruppo ce n'era uno. Costui aveva degli evidenti problemi (sembrava un maniaco da come si comportava) con le donne: affrontai il problema coi praticanti, i quali mi dissero che "Era il karma". Evitavo di stare da sola con lui, ma alla fine ce la fece. Ci provò con me. Non lasciai la riunione, ma non parlai per tutta la sera. Il giorno dopo lo raccontai ad un'altra praticante. Si appellò al karma. Andai a riferirlo ad un'altra, che rimase un po' più scandalizzata ma non fece niente. Un giorno mi incontrai con due responsabili, le quali dissero che con lui ci avrebbe parlato il responsabile uomini. Insomma, nonostante lui avesse molestato me, era "una faccenda tra uomini". Come al solito. Nel frattempo mi veniva detto di recitare per quella persona. Non lo feci mai, ovviamente, anzi, ultimamente più praticavo più stavo male. Lo riferii. Mi venne detto di recitare di meno. Il dato di fatto è che però alle riunioni le esperienze ruotavano intorno al fatto che più recitavi meglio era per i tuoi obbiettivi. Io obiettavo che stavo male, recitando. Mi venne risposto, un'altra volta, in privato, di recitare quello che potevo. Mi sentivo in colpa per non riuscire a recitare daimoku: risposta al senso di colpa? "Recita!". Un circolo vizioso, che ho interrotto definitivamente il giorno in cui ho scoperto che il gohonzon della soka non è quello originale. Decisi immediatamente di lasciare tutto. Cos'ho imparato da questa "esperienza", per usare un termine tanto caro ai sokiani?

- Essere spirituali ed essere religiosi sono due cose diverse. La spiritualità comprende ricerca, e se vi parlano di spirito di ricerca nella soka non li ascoltate: si tradurrà inevitabilmente nel culto di Ikeda.

- Non fidarsi mai di chi pubblica la maggioranza delle proprie opere solo con una casa editrice (in questo caso Esperia): solo con la soka c'è questa cosa. Per esempio, i libri del Dalai Lama li pubblicano molti editori differenti tra loro, perché il loro messaggio è universale. Quelli di Ikeda sono libri brutti, a mio avviso.

- È importante ragionare con la propria testa e litigare, sì, litigare! Anche se nella soka vi diranno che non siete portatori di "valore", ostinatevi a pensare col vostro cervello. Non c'è niente di più appagante, ve lo posso assicurare.

- Non fatevi monopolizzare la vita da un'associazione, nessuna. Se dovete andare a lavorare al mattino alle sette, non sentitevi in colpa se non vi svegliate alle cinque a recitare. Dettatevi voi i vostri ritmi, e non lasciate che nessun altro lo faccia al posto vostro.

- Ho imparato, anche, a ringraziare. Ma solo chi mi fa veramente del bene.

Grazie a voi, quindi, che mi avete dato l'opportunità di ricordare a me stessa quanto stia meglio ora.

Lettera firmata